Come era facile immaginare, il trattamento dei dati rischia di essere il nuovo fronte della guerra fredda in atto tra Stati Uniti e Cina. A dimostrarlo arriva la richiesta di un politico repubblicano, Brendan Carr, commissario repubblicano della Federal Communication Commission, rivolta a Apple e Google, affinché provvedano alla rimozione di TikTok dai propri store.

Il mittente ha chiesto una risposta da parte delle due aziende entro l’8 luglio: nel caso in cui non provvedano a rimuovere l’applicazione dovranno spiegare perché, secondo loro, la presenza di TikTok non sarebbe in violazione della policy in vigore all’interno dei propri store.

La richiesta di Carr è motivata dal fatto che la popolare app costituirebbe un pericolo per la sicurezza nazionale. Secondo lui, infatti, TikTok raccoglie vaste porzioni di dati sensibili che secondo nuovi rapporti sarebbero poi disponibili per il governo di Pechino. L’accusa arriva a pochi giorni di distanza dall’ammonimento rivolto ad un’azienda da parte del Garante per la Privacy italiano, derivante dal fatto che non configurando Google Analytics in maniera adeguata, il sito aziendale andava a violare le normative del GDPR (General Data Protection Regulation), il regolamento europeo relativa alla protezione dei dati sensibili.

Non è difficile immaginare come la richiesta in questione sia destinata a generare nuove tensioni, in un momento in cui il segretario generale della NATO Jens Stoltenberg addita la Cina come una minaccia per l’Occidente. Non resta quindi che attendere la reazione di Pechino, ma soprattutto quella di Apple e Google. Un accoglimento delle tesi di Carr, infatti, potrebbe portare fuori le due aziende da un mercato vastissimo come quello del gigante asiatico.

Le motivazioni di Brandan Carr

La lettera di Brendan Carr si basa su un rapporto di BuzzFeed in cui si citava un episodio risalente al settembre del 2021. In una riunione interna, infatti, un dipendente di TikTok avrebbe affermato che un ingegnere di ByteDance, la società madre dell’app in Cina, aveva la possibilità di accedere a tutto. Non si specificava però il nome di questa persona e, di conseguenza, il tutto poggia su una sorta di pettegolezzo.

Alcune ore prima della pubblicazione del rapporto, però, proprio TikTok aveva a sua volta annunciato di aver provveduto alla migrazione dei dati degli utenti statunitensi su server nazionali affidati alla gestione di Oracle. Se ne può dedurre che i dipendenti cinesi dell’azienda potrebbero aver avuto la possibilità di accedere ai dati degli utenti statunitensi nel periodo compreso dal settembre del 2021 al gennaio di quest’anno, per poi passarli al proprio governo.

In precedenza, l’immagazzinamento dei dati era stato portato avanti in un data center posizionato in Virginia, con un backup a Singapore. Il problema è che la collocazione fisica dei dati conta relativamente, se i dipendenti dislocati in Cina possono comunque accedervi liberamente. Come ha spiegato Adam Segal, direttore del Digital and Cyberspace Policy Program presso il think tank Council on Foreign Relations, a preoccupare è il fatto che i dati potrebbero comunque finire nelle mani dell’intelligence cinese.

I precedenti tra Stati Uniti e TikTok

Va sottolineato come già nel passato ci siano state delle frizioni tra TikTok e il governo di Washington. In particolare, nel 2019, quando era ancora presidente Donald Trump, il Comitato per gli Investimenti Esteri aveva iniziato a indagare sulle possibili implicazioni della raccolta di dati da parte di TikTok, per la sicurezza nazionale. L’indagine era stata alla base dell’ordine esecutivo con il quale l’inquilino della Casa Bianca aveva minacciato il bando dell’app sul suolo statunitense, nell’anno successivo. La risposta dell’azienda era stata all’epoca molto netta, affermando di non aver mai condiviso dati relativi ai cittadini statunitensi, con il proprio governo.

Rassicurazioni le quali, però, suonano come un atto dovuto, considerato come l’azienda avesse già detto le stesse cose quando gli era stata notificata una sanzione pari a 92 milioni di dollari, nell’ambito di una class action inscenata da cittadini statunitensi nel 2021, per il trasferimento dei propri dati a terzi, senza alcun genere di consenso.

Proprio la migrazione dei dati sui server di Oracle, però, sembra dimostrare che il vero bersaglio di Carr non è l’azienda, a meno che non venga dimostrato il trasferimento di dati di cittadini statunitensi al governo cinese. Dopo il 17 giugno in pratica ciò non può più avvenire togliendo di mezzo ogni motivo di possibile attrito. Sembra del tutto evidente, quindi, l’intenzione del governo statunitense di tenere alta la tensione con la Cina.

Una tensione tornata a salire con la decisione di sottoporre a sanzioni alcune aziende del Paese che, sempre secondo il governo di Washington, avrebbero contribuito allo sforzo bellico della Russia contro l’Ucraina. Un’accusa che Pechino ha rigettato con forza, affermando di essersi sempre mantenuta fuori dal conflitto in Ucraina. Considerate anche le parole di Stoltenberg, sembra proprio che il vero obiettivo sia la Cina, in un momento in cui il Paese asiatico si appresta a mettere ancora più in discussione il potere imperiale del dollaro, con l’ormai prossimo lancio del suo yuan digitale.

Il bando di TikTok dall’India

C’è però un altro dato che Carr ha messo in risalto nella sua lettera, ovvero il bando di TikTok dall’India, sancito nel corso del 2020. In quell’occasione, infatti, il governo di New Delhi aveva sanzionato non solo l’app, ma anche WeChat e altre 57 realtà analoghe cinesi, giustificando la decisione con il fatto che andavano a pregiudicare la sovranità nazionale, l’integrità del Paese, la sua difesa interna, la sicurezza dello Stato e l’ordine pubblico.

In realtà, però, in quella occasione il vero motivo del contendere era stato lo scontro di qualche giorno prima tra le forze di sicurezza indiane e quelle cinesi, che aveva avuto come teatro il confine tra i due Paesi, sulle montagne dell’Himalaya. Nello scontro erano stati uccisi una ventina di soldati indiani, provocando la decisione del governo indiano, che era suonata quindi alla stregua di una ritorsione.

La frizione tra TikTok e il governo di New Delhi, al contempo, era già deflagrata in precedenza, quando il secondo aveva incaricato Google e Apple di rimuovere l’app dai rispettivi store, in quanto sulla piattaforma erano presenti contenuti pornografici i quali erano causa di crescenti preoccupazioni. Il divieto era poi stato revocato dopo una settimana.

Al tempo stesso, però, proprio il richiamo di Brendan Carr all’India suona alla stregua di un vero e proprio autogoal. Anche WhatsApp, infatti, è incappato nelle ire del governo locale, accusato di diffondere messaggi violenti, pedofilia e pornografia. Il problema principale, in questo caso, risiede nella crittografia end-to-end della piattaforma, il quale impedisce un controllo a monte dei contenuti. La richiesta di poterlo fare da parte del governo indiano è stata quindi rigettata da Facebook, l’azienda nella cui orbita gravita l’app.

In pratica, quindi, ogni governo potrebbe in qualsiasi momento decidere di bandire dal proprio territorio app e molto altro, tirando fuori le più varie motivazioni. A dimostrazione del fatto che nella guerra per il trattamento dei dati nessuno può essere considerato un santo. Come dimostrato del resto dalla recente vicenda che ha interessato Google, costretta ad adeguare Analytics al GDPR europeo, in quanto i dati raccolti venivano trasmessi negli Stati Uniti, ove non esiste una protezione verso gli stessi analoga a quella vigente nell’eurozona.

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