La Banca di Russia e il Ministero delle finanze del gigante eurasiatico hanno raggiunto un accordo che apre ai pagamenti transfrontalieri in criptovalute. A rendere noto l’evento è stato Kommersant, il quale ha citato a sostegno della sua affermazione la dichiarazione rilasciata  dal viceministro delle finanze russo Alexei Moiseev. In particolare, a consentire quella che dev’essere considerata una vera svolta è la regola concordata tra le controparti, grazie alla quale i residenti all’interno del territorio nazionale possono ora inviare pagamenti transfrontalieri utilizzando valute virtuali.

Già in precedenza erano emerse indiscrezioni secondo le quali erano in fase di discussione gli atti relativi alla possibilità di legalizzare i pagamenti crypto transfrontalieri. Sempre stando ai si dice, però, la banca centrale si sarebbe dimostrata inizialmente contraria ad accordare questa possibilità, come del resto quella di consentire agli exchange di operare alla luce del sole in un quadro di legalità e accettare gli asset virtuali alla stregua di moneta a corso legale.

Lo stesso Moiseev, il recente 5 settembre, aveva dal canto suo ricordato come sin qui il rapporto tra le istituzioni e le criptovalute sia proceduto in maniera non lineare. Basti pensare in tal senso all’approvazione di una legislazione contraria all’utilizzo di Bitcoin e Altcoin come forma di pagamento, nel corso del 2020, atto che sembrava aver posto un vero e proprio macigno sulla strada degli asset virtuali in Russia.

Se con l’inizio delle ostilità in Ucraina erano iniziate a circolare le voci che volevano Mosca intenzionata a far leva sugli asset virtuali per sottrarsi alle sanzioni elevate ai suoi danni da Stati Uniti e Paesi alleati, nel passato mese di luglio il presidente Vladimir Putin aveva invece provveduto ad apporre la sua firma su un disegno di legge che vieta l’utilizzo di risorse finanziarie digitali per i pagamenti. Un atto che sembrava una decisa smentita di quanto dichiarato a maggio dal ministro del Commercio Denis Manturov, secondo il quale la Russia avrebbe legalizzato i pagamenti in criptovalute, senza però riuscire a specificare il quando.

Una situazione sempre più complessa

La decisione sull’utilizzo di risorse digitali per i pagamenti transfrontalieri sembra l’ennesimo segnale di un prossimo mutamento del quadro bellico. La mossa di Mosca arriva in un momento in cui l’annuncio del prossimo referendum nei territori strappati all’Ucraina sembra preludere a scenari sempre più pericolosi. L’allargamento dei confini nazionali agli stessi, infatti, comporterebbe che gli attacchi portati dalle truppe ucraine contro queste zone equivarrebbe ad una dichiarazione di guerra, con la possibilità di un intervento diretto della NATO.

In questa situazione sempre più complessa e scivolosa, non dovrebbe stupire eccessivamente la mossa russa, tesa a sfruttare anche le criptovalute per uno sforzo bellico che sembra destinato a un deciso salto di qualità, dopo l’annuncio del richiamo di 300mila riservisti per la mobilitazione parziale e l’evocazione dell’impiego del nucleare nel conflitto.

La decisione in questione va infatti a sommarsi ai piani relativi al lancio di un rublo digitale, la CBDC (Central Bank Digital Currency) che Mosca dovrebbe lanciare entro il 2024, con l’evidente obiettivo di andare ad indebolire ulteriormente quel potere imperiale del dollaro cui Washington affida la sua leadership globale, unendosi allo yuan virtuale di Pechino. A conferma del fatto che anche gli asset virtuali sono ormai da considerare alla stregua di uno strumento di geopolitica, al di là delle possibili oscillazioni di mercato delle criptovalute su cui si appunta l’attenzione dell’opinione pubblica.

La Russia si avvia verso la legalizzazione del mining

A quanto sin qui ricordato, va poi aggiunto un altro tassello estremamente rilevante, ovvero la volontà di legalizzare il mining di criptovaluta all’interno del vastissimo territorio nazionale che sembra si stia facendo largo nelle istituzioni russe. Un intento il quale è stato ricordato da alcuni media occidentali e che potrebbe comportare un cambio di passo di non poco conto per quanto riguarda anche questo particolare ambito.

Sinora, infatti, nonostante l’abbondante presenza di idrocarburi fossili potenzialmente disponibili per quest’attività, l’estrazione di criptovaluta non ha avuto grande successo. All’interno di quello che è il più grande Paese del mondo in termini di estensione territoriale, l’hash rate di Bitcoin si attesta ad appena il 4,7%. Un dato irrisorio non solo nei confronti del 37,8% statunitense e del 21,1 cinese, ma anche rispetto al 13,2 kazako.

Il dato risente con tutta evidenza dell’aperta ostilità del governo verso un’attività considerata pericolosa a livello ambientale e non strategica in termini economici e finanziari. Un atteggiamento il quale, però, sembra ormai sul punto di mutare del tutto. A dimostrarlo è la volontà di dare vita ad un gruppo di lavoro incaricato di stabilire uno standard in grado di dare vita ad un mining efficiente.

Sembra abbastanza evidente l’intenzione di sfruttare anche quest’attività, soprattutto alla luce del fatto che le risorse elettriche interne sarebbero ampiamente in grado di soddisfare un aumento anche elevato dei consumi necessari all’estrazione di criptovaluta. Risorse le quali potrebbero acquisire grande importanza nell’ottica di un conflitto che non si gioca solo sul territorio ucraino, ma anche sui tanti terreni offerti dalle necessità economiche.

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