La grande diffusione delle criptovalute, ha comportato anche quella di un notevole elenco di nuovi termini ad esse collegati, come del resto accade in ogni ambito tecnologico. Tra quelli che si sentono maggiormente c’è anche “fork”, che in italiano potremmo tradurre con biforcazione.

In effetti, il fork in ambito crypto rappresenta una vera e propria divaricazione all’interno di una blockchain. Tra quelli più noti ci sono sicuramente i fork che hanno interessato la rete del Bitcoin, ma nel corso degli ultimi anni non sono stati pochi gli episodi di questo genere. Ognuno di essi può in effetti essere gravido di conseguenze, andando a scatenare nella peggiore delle ipotesi vere e proprie guerre civili all’interno delle comunità interessate,

Proprio per riuscire a capire meglio il tema della discussione è quindi necessario cercare di chiarire meglio cosa sia un fork e, soprattutto, quanti tipi ne esistano.

Cos’è un fork e perché può avere conseguenze di larga portata

Il punto dal quale partire per comprendere meglio cosa sia un fork e la sua reale importanza è il funzionamento degli asset virtuali. La loro creazione, in particolare, non va a dipendere da un organismo centrale, come le banche centrali nel caso del denaro tradizionale. In questo caso, infatti, il sistema è open source, ovvero aperto a chiunque intenda dare il proprio contributo al sistema creato.

Le comunità di sviluppatori che si dedicano alla funzione sono dedite in particolare alla trasformazione del codice su cui si basa la blockchain, cercando di fare in modo che il suo sviluppo avvenga in base alle enunciazioni teoriche esplicitate sotto forma di White Paper, il documento che riassume caratteristiche tecniche e obiettivi da conseguire.

All’interno della blockchain, la comunità decide le regole di governo cui si deve attenere ogni partecipante alla rete, utilizzando all’uopo un meccanismo di consenso. Quello cui si conforma il Bitcoin è il Proof-of-Work (PoW), mentre altre monete digitali utilizzano il Proof-of-Stake (PoS) o varianti dello stesso.

Le decisioni prese dalla comunità, però, possono non piacere ad una parte della stessa. Il dissenso che si forma può restare confinato all’interno della stessa oppure essere la base per una vera e propria rivolta. In questo caso i dissidenti possono decidere di staccarsi dalla blockchain originaria e formarne una nuova, del tutto indipendente dalla prima e incompatibile con la stessa. Nel corso degli ultimi anni non sono state poche le decisioni in tal senso e non sono da escludere neanche per il futuro.

In altre occasioni, invece, il fork può verificarsi sotto forma di un semplice aggiornamento, senza che la nuova catena sia incompatibile con quella originaria. Può trattarsi in effetti di una semplice necessità originata dall’aggiunta quasi contemporanea di due blocchi da parte dei miners. In questo caso non c’è nulla di traumatico, semplicemente uno dei due viene aggiunto e l’altro ignorato.

Nel primo caso, quello che vede il distacco di una parte della comunità dal progetto originario, si parla di hard fork, nel secondo di soft fork. Andiamo perciò a cercare di chiarire meglio le implicazioni di un caso e dell’altro.

Il soft fork non è del tutto indolore

Il soft fork, da un punto di vista strettamente tecnico, non dovrebbe rientrare nell’ambito delle vere e proprie biforcazioni. Si tratta infatti di aggiornamenti a seguito dei quali è possibile creare nuovi blocchi compatibili con quelli preesistenti, ovvero con il vecchio protocollo.

In pratica, da un certo punto in poi i blocchi vengono minati utilizzando un nuovo protocollo aggiuntivo, il quale non impedisce però ai minatori intenzionati a farlo di usare quello precedente, senza fare ricorso ai nuovi strumenti previsti dalla modifica.

In questi casi non si verifica alcuna biforcazione della catena, ma il processo portato a termine viene indicato egualmente come fork, anche se soft. Il caso più celebre di soft fork è quello denominato SegWit, che ha interessato la blockchain di Bitcoin. Proposto da Blockstream, il nuovo protocollo è stato implementato anche da Litecoin e Vertcoin, ma ha portano nondimeno ad una guerra interna.

La vicenda in questione è stata originata proprio dal grande successo di BTC, che non era atteso in quelle proporzioni. La catena di certificazione decentralizzata delle transazioni e il limite della capacità dei blocchi ad un megabyte per ognuno di essi hanno quindi avuto come conseguenza tempi eccessivi per la gestione delle operazioni e un aumento delle commissioni sempre più notevole. Limiti tali da frenare la diffusione dell’icona crypto a livello di pagamenti e ai quali si è cercato di porre rimedio con l’introduzione di SegWit.

Avanzata come una proposta di compromesso, la modifica prevedeva di spostare parzialmente la gestione delle transazioni su una rete esterna alla blokchain, portando la capacità dei blocchi a due MB dopo la sua integrazione, avvenuta nel 2017. Accettata dal 90% dei nodi è stata però rifiutata da chi temeva che il nuovo meccanismo mettesse a repentaglio la sicurezza del sistema e andasse a consegnare  la rete ai grandi operatori, forniti della necessaria capacità di calcolo per schiacciare tutti gli altri.

I rivoltosi, guidati da Craig Wright, l’ormai celebre Faketoshi, hanno quindi dato vita a Bitcoin ABC, poi diventato Bitcoin Cash. Da questo momento in avanti, la vicenda ha però assunto toni sempre più vivaci, trasformandosi in una sorta di pochade, se solo si pensa che all’interno di BCH si è originata una ulteriore scissione, quella di Bitcoin Satoshi Vision (BSV), ovvero il progetto che, secondo i promotori, doveva recuperare lo spirito originario del Bitcoin, quello prefigurato da Satoshi Nakamoto nel suo celebre White Paper.

Hard fork, il più famoso è quello di Ethereum

Quando i nuovi blocchi originati con un altro protocollo non sono più compatibili con quelli vecchio, il fork si trasforma in hard. In questo caso la biforcazione è effettiva, in quanto dal punto di svolta si vengono a creare due blockchain distinte e in concorrenza tra di loro.

Il caso più celebre di hard fork può essere considerato quello che ha interessato Ethereum nel corso nel 2016 e conseguente ad una vera e propria manipolazione del sistema, a seguito della quale vennero sottratti Ether per un valore di circa 50 milioni di dollari dell’epoca. Un evento, soprannominato DAO, il quale ha condotto all’unica scissione realmente significativa interna alla rete Ethereum, con la distinzione netta tra due criptovalute:

  1. Ethereum Classic (ETC), che continua a seguire il protocollo originario;
  2. Ethereum Foundation (ETH), derivante dal rinnovamento del protocollo rinnovato attualmente in uso. In pratica, quando si parla generalmente di “Ethereum”, il  riferimento è proprio a questo secondo fork.

Dopo questo evento, la blockchain del progetto varato da Vitalik Buterin ha dato luogo ad altre modifiche, tese a un miglioramento del codice, l’ultimo dei quali London, è da considerare estremamente rilevante ai fini del funzionamento della rete. Per fortuna, ognuna delle stesse è andata in porto senza eccessivi problemi in termini di autogoverno della rete.

Oltre ai fork di Bitcoin ed Ethereum, molti altri progetti crypto sono stati colpiti da eventi analoghi. Ad esempio Monero, che ha visto montare il malumore all’interno della sua comunità in occasione della decisione presa dal suo fondatore, Riccardo Spagni, di cambiare il suo algoritmo ogni sei mesi, al fine di contrastare lo sviluppo tecnologico di cui sono protagonisti gli ASIC.

A seguito di questo annuncio si sono susseguiti addirittura due fork, i quali hanno condotto al varo di Monero Original (XMO) e Monero Classic (XMC). Il secondo ha avuto un successo maggiore rispetto al primo, in quanto trattandosi di un progetto cinese ha potuto contare su una platea di exchange superiore. In entrambi i casi, però, XMR non ha faticato ad assorbire le conseguenze della scissione.

Le sidechain

Un capitolo a parte spetta poi alle sidechain, che rappresentano non un fork, ma il varo di nuove blockchain che si dipartono da quella principale, risultando di conseguenza indipendenti, restando comunque agganciate a quella principale, la mainnet, grazie ad un peg a due vie: permettono cioè di scambiare direttamente token tra la blockchain primaria e quella secondaria, in entrambe le direzioni.

Tra quelle più utilizzate una menzione d’onore spetta sicuramente a Polygon, grazie alla quale è possibile dare vita a transazioni in Ethereum più rapide e convenienti. Per conseguire questi risultati si può procedere al cambio di Ether in MATIC, il token nativo di Polygon, in maniera immediata, diretta e senza necessità di particolari permessi. I coin ottenuti nello scambio possono essere utilizzati sulla sidechain di Polygon per poi essere riconvertiti nuovamente in Ether, quando lo si ritenga opportuno.

Il motivo che permette a Polygon di essere molto più rapida e conveniente di Ethereum è da individuare nel differente algoritmo su cui si basano: il primo fa leva infatti sul Proof-of-Stake, a differenza della seconda, che ha adottato il Proof-of-Work ed è ancora in attesa di poter passare a PoS, un evento il quale potrebbe avvenire nel corso dell’anno. In questo caso saremmo di fronte ad un soft fork per il quale non si prevedono particolari sconquassi. Considerata la rissosità che da sempre contraddistingue il settore crypto, è però meglio dirlo sottovoce.