La questione del trattamento fiscale da applicare alle criptovalute continua a tenere banco nel nostro Paese. L’ultimo intervento dell’Agenzia delle Entrate in tema è quello relativo allo staking, ovvero il deposito di token presso aziende che remunerano chi lo effettua con rendimenti i quali possono anche rivelarsi molto interessanti. Attività che assomiglia per molti versi ai conti deposito classici proposti dalle banche, ove però i rendimenti proposti sono letteralmente crollati nel corso degli ultimi anni.
Il meccanismo noto come staking è diventato molto popolare tra i possessori di criptovalute, in quanto è in grado di garantire un possibile vantaggio, quello di mettere a frutto i token mettendoli al lavoro sulla blockchain. Come è noto, proprio su questa infrastruttura virtuale avvengono le transazioni in denaro virtuale, tramite utilizzo di algoritmi di consenso. Se è prevalente il Proof-of-Work (PoW), il quale comporta però l’impiego di macchinari sempre più potenti, non mancano le aziende che hanno scelto al suo posto il Proof-of-Stake (PoS), in cui invece i validatori dei blocchi vengono scelti casualmente in base al possesso di token. Più se ne posseggono, più sono le probabilità di essere scelti. Mentre altre si apprestano ad adottarlo, in particolare Ethereum, il cui passaggio al PoS si sta però rivelando più laborioso del previsto.
Va ricordato a questo punto che chi mette le sue criptovalute in fase di stake, viene naturalmente compensato con premi che molte società hanno via via elevato al fine ben preciso di attirare utenti disposti a farlo. Il guadagno che ne deriva ha infine spinto un contribuente italiano a porsi il problema relativo alla tassazione, concludendo che si tratti di “redditi diversi”, quelli trattati dall’art. 67 del TUIR. Un ragionamento derivante dal fatto che la natura dell’attività è con tutta evidenza connessa a rischi informatici piuttosto che a quelli finanziari, il quale non è però stato accettato dall’Agenzia delle Entrate.
Cosa dice l’Agenzia delle Entrate sullo staking di criptovalute
Secondo l’Agenzia delle Entrate, lo staking va trattato da un punto di vista fiscale come una attività che produce reddito da capitale. La risposta è stata data nell’ambito dell’interpello n.956-771/2022, posto da una start-up umbra. La base da cui è partita l’agenzia è la circolare 165 risalente al 1998, in cui si afferma che è riscontrabile un reddito da capitale ogni qualvolta si venga a configurare “un qualunque rapporto attraverso il quale venga posto in essere un impiego di capitale”.
Il caso in questione non sfugge a questa definizione, in quanto il capitale messo in fase di staking va a generare un reddito di capitale, quello che viene indicato nell’articolo 44 del TUIR stesso. In conseguenza di questa caratteristica, il trattamento da applicare è l’imposta sostitutiva del 26%, negando l’ipotesi che possa essere assimilato a quello dei redditi diversi.
Il giudizio espresso dall’Agenzia delle Entrate rappresenta l’ennesimo nella definizione di una materia la quale ha conservato a lungo aspetti tali da poter indurre in errore i contribuenti del nostro Paese che sono soliti fare trading di criptovalute e mettere in staking gli asset virtuali posseduti. Il tutto in attesa che anche la politica decida cosa fare con le criptovalute, settore del quale per il momento si è occupato quasi esclusivamente il M5S, in particolare con la presentazione di progetti di legge nei due rami del Parlamento da parte della senatrice Elena Botto e del deputato Davide Zanichelli.
Attivismo il quale non è però stato premiato, anche a causa della caduta del governo Draghi. Non resta quindi che attendere la nuova legislatura per capire se il Parlamento vorrà provare a dare una definizione ad una materia la quale sta assumendo una rilevanza sempre maggiore e ponendo una lunga serie di interrogativi, sia dal punto di vista normativo che fiscale. Nell’ipotesi contraria sarà con ogni probabilità l’Unione Europea a indicare la rotta su un gran numero di temi, compreso lo staking. A indicare questa direzione è la proposta di messa al bando del mining condotto mediate Proof-of-Work, considerato troppo inquinante dal blocco dei Paesi nordici, destinato a incidere in maniera indiretta sul meccanismo concorrente.
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