Per chi ancora non lo sappia, la detenzione di criptovalute comporta l’obbligo di denunciarla al fisco. In particolare, è stata l’Agenzia delle Entrate, a procedere all’assimilazione del denaro virtuale alle valute estere, sulla base della Risoluzione 72/E/2016, supportata dalla sentenza della Corte di Giustizia UE causa C-264/14 del 22 ottobre 2015. Una interpretazione la quale, all’atto pratico, ha subito evidenziato la possibilità di eccezioni non solo evidenti, ma anche in grado di minare la certezza del contribuente.

La situazione che ne è derivata ha comportato non poche difficoltà nella compilazione della dichiarazione dei redditi nella parte attinente quelli provenienti dalle criptovalute. Si pensava che a fornire un chiarimento della situazione avesse concorso l’Agenzia stessa, tramite la risposta all’interpellanza 956-448/2022, stabilendo che gli investimenti in questione vadano inseriti nel riquadro RW. Ora, però, la massima autorità fiscale tricolore ha chiarito che nel caso in cui sia utilizzata all’uopo una piattaforma italiana quest’obbligo viene a cadere.

Insomma, nell’eterno gioco dell’oca tra fisco e contribuenti, stavolta il ritorno alla casella precedente sembra avvantaggiare i secondi. Resta però la sgradevole sensazione che l’approdo ad una determinazione chiara ed esauriente del quadro fiscale inerente alle criptovalute sia ancora ben lungi dall’arrivare. Come del resto ricordato nel corso del 2020 da Paolo Savona, il presidente della Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB). Se all’epoca Savona aveva giudicato ormai maturi i tempi per dare vita ad una regolamentazione in grado di creare un sistema coerente, i fatti hanno dimostrato che si trattava al massimo di una speranza.

La confusione sui redditi da criptovalute è destinata a proseguire

La risoluzione che abbiamo ricordato emanata a livello europeo nel 2016, afferma che le plusvalenze derivanti dal trading di criptovalute devono essere considerate redditi diversi di natura finanziaria e, in conseguenza di ciò, sono soggette a imposta sostitutiva del 26% nel caso in cui l’ammontare detenuto dal contribuente vada ad oltrepassare la cifra di 51.645,69 euro per sette giorni lavorativi continui durante l’arco dell’anno. La difficoltà derivante da questa impostazione è quella relativa al calcolo della giacenza media all’interno del wallet, ovvero il portafoglio digitale usato per la conservazione del proprio tesoro virtuale.

Proprio per cercare di risolvere questa strozzatura di non poco conto l’Agenzia delle Entrate ha cercato di porre un punto cui i contribuenti possano far riferimento. Il problema, però, sembra destinato a restare notevole proprio per la mancanza di organicità nei vari provvedimenti adottati. Resta quindi sul tavolo la necessità di una regolamentazione chiara, tale da non lasciare più spazio alle interpretazioni più disparate. La palla passa quindi alla politica.

L’interesse del M5S per le criptovalute

A livello politico c’è un partito che ha deciso di provare a dare una risoluzione al problema, ovvero il Movimento 5 Stelle. L’interesse del movimento sorto su impulso di Beppe Grillo per le criptovalute si è tradotto in particolare in un progetto di legge presentato dalla senatrice Elena Botto il passato 30 marzo, intitolato “Disposizioni fiscali in materia di valute virtuali e disciplina degli obblighi antiriciclaggio”.

Il provvedimento in questione presenta notevoli analogie con un altro parto del M5S, ovvero il disegno di legge presentato alla Camera da Davide Zanichelli, stabilendo in particolare:

  • l’introduzione di una unità matematica crittografica cui spetterebbe il compito di rappresentare il comune denominatore di qualunque asset virtuale;
  • il ricorso ad una perizia asseverata tesa a cristallizzare il controvalore delle valute virtuali;
  • l’assoggettamento delle plusvalenze nel caso in cui esse tocchino la soglia dei 51.645,69 euro di controvalore in valute virtuali detenute nei wallet ad un’imposta sostitutiva la quale prevede aliquote progressive dell’8% sulle plusvalenze fino a 500mila euro, del 9% per quelle superiori ai 500mila euro e del 10% nel caso in cui si attestino ad un importo superiore al milione;
  • l’istituzione di meccanismi presuntivi;
  • l’esplicitazione del principio secondo il quale le operazioni di conversione da valuta virtuale ad altra valuta virtuale sono irrilevanti sul piano fiscale, non generando  di conseguenza plusvalenza imponibile;
  • l’esenzione dall’obbligo di dichiarazione delle valute virtuali nel quadro RW della dichiarazione dei redditi ove il controvalore delle valute virtuali detenute non superi la soglia di 15mila euro.

A questi due progetti di legge molto simili, se n’è poi aggiunto un altro che affronta ulteriori aspetti legati al trading di criptovalute. Stiamo parlando della cosiddetta Raider Tax, provvedimento messo in campo dal senatore Mario Turco, anche lui del M5S e docente di Economia aziendale all’Università del Salento. La nuova tassa andrebbe a sostituire la già operante Tobin Tax e, secondo il proponente, sarebbe in grado di garantire risorse costanti fino a 2-3 miliardi all’anno, con cui sarebbe possibile alleggerire la pressione fiscale su famiglie e imprese del Belpaese.

La Raider Tax andrebbe a colpire soprattutto le attività di carattere chiaramente speculativo, quindi anche le criptovalute. Anche in questo caso l’imposizione avrebbe le sembianze di tassa progressiva in relazione alle operazioni di vendita, con l’intento di “considerare l’unicità del soggetto economico e non semplicemente del soggetto giuridico”, come è possibile leggere all’interno dell’Ordine del Giorno n. G1.100 al DDL n. 1354.

L’imposta che deriverebbe dall’attuazione di questo provvedimento sarebbe strutturata per crescere in funzione degli importi negoziati e applicherebbe la progressione con il decrescere del tempo di negoziazione. In pratica, più si avvicina il tempo della vendita più è elevata l’aliquota da applicare. La legge metterebbe in soffitta la Tobin Tax, un provvedimento caratterizzato da una forte valenza ideologica che, però, ha prodotto scarsi effetti, quantificabili sui 3-400 milioni di euro annuali. Una cifra molto ridimensionata rispetto alle aspettative proprio dalla scelta di modalità di tassazione facilmente eludibili.

Tutto rimandato a dopo le elezioni

L’attivismo del M5S non sarà però premiato nel corso della legislatura che si è appena conclusa, dopo le dimissioni di Mario Draghi. Resta solo da capire se il nuovo Parlamento si deciderà finalmente a dedicarsi ad un tema che sta diventando sempre più importante, proprio in considerazione del crescente rilievo delle criptovalute, non soltanto in termini di trading, ma anche per i sistemi di pagamento.

Senza contare i rischi che la mancanza di regole comporta per gli investitori. Un tema balzato in evidenza anche nel nostro Paese con il crac di New Financial Technology, l’azienda di Silea che è di recente fallita, facendo sparire d’incanto centinaia di milioni di euro, quelli depositati sui conti dell’azienda sotto forma di criptovalute in cambio di interessi pari al 10% mensili. Come al solito la politica italiana si muoverà soltanto dopo che i buoi hanno lasciato la stalla, ma la speranza è che sin dall’avvio della nuova legislatura il nuovo Parlamento decida di occuparsi finalmente di una materia  rimasta sino ad ora fuori dal suo raggio d’azione. Non farlo potrebbe aprire la strada a nuovi casi come quello veneto, un lusso che il Paese non può più permettersi.

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