Nell’ultima lista dei dieci principali ricercati dal Federal Bureau of Investigation (FBI), compare una sola donna. Si tratta di Ruja Ignatova, imprenditrice bulgara scomparsa dai radar il 25 ottobre del 2017, dopo essere salita su un volo Ryanair in partenza da Sofia e diretto ad Atene, in Grecia. Dopo lo sbarco sul territorio greco la donna ha fatto perdere le sue tracce, lasciando alle sue spalle una autentica voragine, quella di OneCoin.

Se la lista dei Most Wanted dell’FBI può essere considerata l’apice della sua controversa notorietà, sono comunque molti i Paesi che vorrebbero avere l’onore di riuscire a trovarla e chiarire meglio una vicenda che ha provocato miliardi di perdite in ogni parte del globo e fatto traballare l’intero settore delle criptovalute, ove pure le truffe sono ormai da anni all’ordine del giorno. Andiamo quindi a ripercorrere la vicenda di OneCoin, anche alla luce di quanto sta accadendo con il crac di Terra, su cui si stanno concentrando le attività delle varie agenzie di investigazione.

Ruja Ignatova: per l’FBI la cryptoqueen è ormai una priorità

Dopo aver riempito le cronache di molti media, ora Ruja Ignatova ha compiuto un vero e proprio salto di qualità: il suo nome, infatti, compare dalla passata settimana tra i dieci principali ricercati dell’FBI. L’agenzia federale statunitense, però, ha pensato bene di evidenziare il suo interesse per l’imprenditrice bulgara, accludendo alla sua foto segnaletica una taglia pari a 100mila dollari, spettanti a chi fornirà indicazioni per la sua cattura.

A conferirle grande notorietà, non positiva naturalmente, è stata la truffa OneCoin, iniziata nel 2014, quando la Ignatova lanciò questa criptovaluta in pratica inesistente, collezionando entrate per circa quattro miliardi di dollari. A favorirle fu in particolare una strategia imperniata su una lunga serie di eventi, anche mondani, tali da permettere a OneCoin di diventare un vero e proprio fenomeno.

Un fenomeno, però, fondato praticamente sul nulla. Se la Ignatova girava il mondo spiegando che il funzionamento di OneCoin era lo stesso di quello che caratterizzava Bitcoin, con la blockchain alla base del tutto, in realtà non c’era alcuna catena di blocchi a sostanziare il token. La donna, però, aveva ben compreso uno dei segreti alla base di BTC, ovvero il fascino presso alcuni settori delle parole d’ordine contenute nel White Paper della creazione di Satoshi Nakamoto.

Per dare ulteriore forza alla sua truffa, la Ignatova pensò quindi di affermare pubblicamente la superiorità tecnica di OneCoin, token non solo democratico, ma anche più performante dell’icona crypto, sia in termini di velocità, che di convenienza. Una presentazione estremamente accorta, considerato il fastidio sempre più evidente di tante persone verso il mondo finanziario tradizionale.

Se la sua azione si è rivolta soprattutto alla raccolta di soldi presso le economie emergenti, in Africa, Medio Oriente e Sudamerica, si è poi scoperto che il fascino delle sue teorizzazioni ha colpito anche presso quelle più floride, come ad esempio la nostra. Lo scorso anno, infatti, si è sparsa la notizia che ammonterebbe addirittura a 3700 il numero di persone adescate da OneCoin in Alto Adige. Numeri tali da procurarle il soprannome di cryptoqueen.

La regina della truffa OneCoin: chi è Ruja Ignatova

Al centro della tela dipanata, naturalmente, ha rivestito una importanza fondamentale proprio Ruja Ignatova, una delle poche donne emerse in un ambiente, quello dell’innovazione finanziaria, che vede ai vertici soltanto uomini, sin dagli inizi.

La sua scalata è iniziata nel 2005, quando è riuscita ad ottenere un dottorato in diritto internazionale all’università tedesca di Costanza. Un titolo il quale le ha permesso di conseguire una certa notorietà negli ambienti accademici, quindi un’autorità che le è poi risultata molto preziosa, quando ha iniziato a tessere la sua tela.

Con il lancio di OneCoin il suo nome ha cominciato a circolare sempre più spesso, in ambiti teoricamente prestigiosi, come ad esempio Forbes, la cui edizione bulgara nel 2015 le ha addirittura dedicato una copertina o come l’Economist, uno dei più rispettati magazine a livello globale, il quale non ha avuto eccessive remore nell’invitarla ad un evento pubblico svoltosi sotto la sua egida.

Se Forbes e Economist non avevano dubbi, all’epoca, perché non si sarebbero dovuti fidare i tanti piccoli investitori sempre alla ricerca di asset su cui far convergere i propri risparmi, sperando di farli fruttare al meglio? La domanda è ormai d’obbligo quando si verificano truffe in ambito finanziario e un gran numero di persone si ritrova con un pugno di mosche in mano.

OneCoin: quando la truffa si trasforma in arte

La crescita di influenza non ha però fatto dimenticare alla Ignatova la necessità di continuare a tessere instancabilmente la sua tela, attirando sempre nuovi investitori in quella che ancora non si pensava fosse una trappola. Il culmine in tal senso è stato raggiunto l’11 giugno del 2016, quando nel corso di un gigantesco raduno di investitori di OneCoin organizzato allo stadio Wembley di Londra, proprio lei annunciò che OneCoin aveva raccolto milioni di iscritti e che si apprestava a fungere da Bitcoin Killer. A rafforzare la tesi un annuncio abbastanza impegnativo: nel giro di due anni nessuno avrebbe più parlato di BTC.

Di fronte ad affermazioni così altisonanti, sarebbe dovuto scattare un primo campanello d’allarme, considerato come la regina delle criptovalute, con tutti i suoi limiti tecnici, fosse comunque un ecosistema vero e proprio, fondato su una blockchain e su un livello di accettazione e notorietà già elevato. Incredibilmente, invece, le frottole della sedicente imprenditrice bulgara non hanno mai sollevato obiezioni. Tanto da spingere molti investitori a trasformarsi in veri e propri agenti, dando vita alla più classica delle catene di Sant’Antonio. O meglio, al più classico degli schemi Ponzi, le piramidi fondate sul nulla in cui i primi guadagnano sin quando il meccanismo non si inceppa.
A far crollare il sistema, però, non è stato in questo caso la mancanza di nuovi investitori, ma un esperto informatico norvegese, Bjorn Bjercke, al quale l’azienda ha deciso di rivolgersi nell’ottobre del 2016 per costruire una blockchain. Una richiesta suonata molto strana all’interessato, considerato che ormai da due anni OneCoin si presentava come una vera e propria criptovaluta, raccogliendo miliardi di dollari dagli investitori. Quando l’informatico ha espresso le sue perplessità, anche l’FBI ha drizzato le antenne, capendo che qualcosa non andava.

Secondo l’FBI OneCoin è uno schema Ponzi, ovvero una chiara truffa

Le indagini condotte dal Federal Bureau of Investigation a partire dal 2017 non hanno poi tardato a tirare le somme: OneCoin era una semplice truffa, portata avanti con l’ormai famigerato metodo dello schema Ponzi. In pratica nulla di più che la versione illegale del cosiddetto marketing multilivello, il sistema controverso, ma comunque legale in cui i consumatori vengono incoraggiati ad attirare nuovi clienti nelle rete di vendita dell’azienda, ricavando in cambio commissioni non solo dalle vendite effettuate, ma anche da quelle collezionate dalle proprie reclute.

Ciò che rende legale il marketing multilivello e illegale lo schema Ponzi è il fatto che il primo prevede comunque la vendita di un prodotto reale, mentre il secondo non porta alla vendita di prodotti, ma di semplici illusioni. Nel caso di OneCoin si attiravano persone prospettando una criptovaluta inesistente.

Dopo aver capito la realtà delle cose l’agenzia decise quindi di muoversi per porre un argine alla frode. Per farlo si accordò con il compagno della Ignatova, per una collaborazione tesa al suo arresto. La donna, però, colta da una crisi di gelosia, fece mettere delle cimici all’interno dell’abitazione, scoprendo quello che stava bollendo in pentola. Riuscì quindi a far perdere le sue tracce, mentre l’FBI procedeva all’arresto dei suoi collaboratori, a partire dal fratello Konstantin e dal cofondatore del “progetto”, Sebastian Greenwood.

Mentre OneCoin crollava, un gran numero di persone di ogni parte del globo si ritrovava a contare le perdite, con un bilancio finale nell’ordine dei miliardi di dollari. Perdite che hanno naturalmente arricchito la sedicente imprenditrice bulgara, che nel periodo di massimo fulgore poteva ormai far conto su un patrimonio personale pari a mezzo miliardo di dollari. Non tutto volatilizzato, peraltro, se si considera che nel corso del 2021 la BBC ha appurato come la donna sia in possesso ancora di un appartamento a Londra, nel prestigioso quartiere di Kensington, il cui valore si attesta a circa 15 milioni di euro. Per non farsi mancare nulla, la Ignatova aveva peraltro pensato di arredarlo con opere di Andy Warhol, a rimarcare lo status raggiunto.

Ora non resta che attendere l’epilogo di una vicenda che resta comunque a perenne monito per tutti coloro i quali pensano di poter fare soldi facili con la finanza, tradizionale o meno. Il problema è che il primo schema truffaldino inventato da Charles (o Carlo) Ponzi risale al periodo immediatamente successivo alla Prima Guerra Mondiale. È quindi passato un secolo da quando il celebre truffatore italiano riuscì a raggirare un gran numero di persone.

Da allora le truffe portate avanti promettendo rendimenti clamorosi non si sono mai arrestate e un secolo dopo ancora decine di migliaia di persone in ogni parte del globo si ritrovano a fare la conta dei danni dopo aver abboccato all’amo. Per l’FBI sarà comunque difficile riuscire a catturare la Ignatova, la quale potrebbe aver cambiato aspetto per sfuggire alla caccia. Anche se ci riuscisse, però, non resterà che attendere una nuova truffa per tornare a immortalare il nome di Carlo Ponzi, ormai considerato alla stregua di un vero e proprio convitato di pietra.

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