Il nuovo governo Meloni, guidato dalla prima donna chiamata a ricoprire questo governo in Italia, si è finalmente insediato e potrà ora essere giudicato dall’elettorato al netto delle tante tirate propagandistiche dei mesi passati e delle comprensibili reazioni post elettorali.
Nel discorso fatto di fronte alla Camera dei Deputati, il Presidente del Consiglio ha affrontato tra i tanti temi anche quello relativo alla tecnologia. Un tema sempre più cruciale e del quale, peraltro, si è discusso a lungo nel corso degli anni passati, spesso però senza passare all’atto pratico, nonostante l’importanza ad esso attribuito, anche in termini di risorse finanziarie, all’interno del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza). Andiamo quindi a vedere cosa ha detto Giorgia Meloni e cercare di capire cosa potrebbe accadere nell’immediato futuro.
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Giorgia Meloni: transizione digitale e sovranità tecnologica devono procedere di pari passo
“Intendiamo tutelare le infrastrutture strategiche nazionali assicurando la proprietà pubblica delle reti, sulle quali le aziende potranno offrire servizi in regime di libera concorrenza, a partire da quella delle comunicazioni. La transizione digitale, fortemente sostenuta dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), deve accompagnarsi alla sovranità tecnologica, al cloud nazionale e alla cyber-security”: questo può essere considerato il punto centrale della parte riservata alla tecnologia nel discorso di insediamento di Giorgia Meloni.
Un accento particolarmente forte, quello sull’interesse nazionale, che echeggia spesso nel discorso offerto alla Camera dalla leader di Fratelli d’Italia, come dimostra questo ulteriore passaggio: “E vogliamo finalmente introdurre una clausola di salvaguardia dell’interesse nazionale, anche sotto l’aspetto economico, per le concessioni di infrastrutture pubbliche, come autostrade e aeroporti. Perché il modello degli oligarchi seduti su dei pozzi di petrolio ad accumulare miliardi senza neanche assicurare investimenti non è un modello di libero mercato degno di una democrazia occidentale”.
Il tema era del resto stato affrontato in campagna elettorale dalla Meloni, che aveva affermato ai microfoni di Radio24 come fosse ormai ora di far tornare unica la rete di telecomunicazioni e, soprattutto, in mano all’Italia. Una posizione del resto in linea con quella dei grandi Paesi e fondata sul fatto che la proprietà di questa rete non può essere privata, proprio per una questione di sicurezza nazionale e tutela dell’interesse del Paese.
Nello stesso discorso la Meloni aveva poi affermato con notevole vigore la sua intenzione di estendere la golden power, facendone la vera e propria chiave di volta per una difesa delle produzioni, dei marchi e delle infrastrutture strategiche. Un richiamo il quale sembra ora destinato a diventare finalmente realtà dopo le tante parole dei mesi precedenti.
Interesse nazionale e proprietà pubblica per la rete unica delle TLC
Il discorso tenuto in quell’occasione era stato interpretato come un vero e proprio siluro ai francesi di Vivendi, azionisti principali di TIM con il 23,75% del capitale azionario. Un siluro il quale, del resto, era stato attentamente pianificato con un progetto per le telecomunicazioni italiane, il cosiddetto progetto Minerva, messo a punto proprio dagli esperti in tema di Fratelli d’Italia.
Il piano in questione prevede in particolare un intervento pubblico che costituirebbe la base per arrivare alla rete unica con l’aggregazione tra la fibra di Open Fiber e la rete di TIM. Nell’ambito del piano è anche prevista un’OPA (Offerta Pubblica di Acquisto) da parte di Cassa Depositi e Prestiti, con la sua sostituzione a Vivendi. Soltanto una volta che CDP sarà diventata l’azionista di maggioranza di TIM si potrà infine procedere al varo dell’infrastruttura unica.
Anche in questo caso i prossimi mesi saranno incaricati di far capire se, come troppo spesso accade nel nostro Paese, si tratta di semplici enunciazioni o se, al contrario, l’Italia passerà finalmente all’azione concreta per preservare il proprio interesse.
Le polemiche sulla mancanza di un vero e proprio ministero dell’Innovazione
Nei giorni precedenti, più di un osservatore si era soffermato sulla decisione di non dare vita ad un vero e proprio Ministero dell’Innovazione, preferendo dare luogo ad una sorta di spezzatino, con l’affidamento di competenze in materia a tre dicasteri: quello delle Imprese e del Made in Italy (prima indicato come Sviluppo Economico), affidato a Adolfo Urso (Fratelli d’Italia), quello della Pubblica Amministrazione, in mano a Paolo Zangrillo (Forza Italia) e, infine al Ministero per le politiche europee, la coesione e al PNRR, affidato a Raffaele Fitto (Fratelli d’Italia).
Una decisione la quale era stata criticata tra gli altri anche da Massimo Capitanio, commissario dell’AGCOM (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), durante la presentazione del rapporto I-com “Don’t stop it now”. Secondo il commissario la mancanza di una figura di raccordo rischia infatti di provocare rallentamenti e di creare confusione nell’interpretazione di norme e regolamenti nei singoli dicasteri e nelle PA.
Lo stesso Capitanio si è comunque dichiarato favorevole al tema della sovranità tecnologica, intesa non come chiusura verso l’esterno, bensì come condizione necessaria per preservare l’interesse nazionale, puntando con sempre maggiore forza sullo strumento rappresentato dal golden power. Ora non resta quindi che attendere le prossime mosse in tal senso in un paese ove troppo spesso il concetto di interesse nazionale è stato sacrificato ad una narrazione che vede come indifferibile il trasferimento di sovranità ad un’Unione Europea ove però è sempre più visibile la trazione franco-germanica a danno dei Paesi mediterranei.
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