Le recenti notizie provenienti dagli Stati Uniti, in particolare dallo Stato di New York, la cui Assemblea ha approvato un disegno di legge che prevede una moratoria di due anni per tutti i nuovi impianti di mining di criptovalute basati sul proof-of-work (PoW) che alimentano le loro attività con energia fossile, hanno destato notevoli preoccupazioni anche in Europa.

Se, infatti, di recente è stato bloccato un emendamento al nuovo regolamento Markets in Crypto Assets (MiCA) in discussione presso il Parlamento Europeo, il quale chiedeva il bando al Proof-of-Work sul territorio continentale, la questione sembra comunque essere tutt’altro che risolta.

Alcuni Paesi, in particolare la Svezia, non sembrano infatti disposti a tollerare un’attività di mining la quale sembra poter mettere a repentaglio gli obiettivi di risanamento ambientale che l’Unione Europea si è posta ormai da tempo. Il blocco nordico capeggiato dagli scandinavi potrebbe presto tornare alla carica e, di conseguenza, in molti si chiedono cosa potrebbe accadere in tal senso.

La discussione dovrebbe però essere sgombrata preliminarmente da alcune vere e proprie bufale e tenere conto di dati reali. Proviamo quindi a fare un minimo di ordine per cercare di capire meglio la questione e le possibili implicazioni.

Lo Stato di New York non sta bandendo il mining di Bitcoin

Il primo dato da tenere in conto è che lo Stato di New York non sta assolutamente mettendo al bando il mining di Bitcoin. Il disegno di legge, presentato da Anna Kelles, infatti, impone una sospensione di due anni sull’approvazione di qualsiasi nuova attività di mining di Bitcoin e il rinnovo dei permessi rilasciati alle attuali mining farm che portano avanti il Proof-of-Work utilizzando energia derivante da fonti fossili.

Dopo aver raccolto il sostegno di 95 parlamentari, contro 52 contrari, ora la legge sarà presentata da Kevin Parker al Senato dello Stato e, in caso di approvazione, dovrà essere consegnata al governatore Kathy Hochul, alla quale spetta il compito di firmarlo oppure porre il suo veto. Prima della discussione  la Blockchain Association ha cercato di esercitare pressioni sui rappresentanti invitando i residenti di New York favorevoli all’innovazione finanziaria a far capire il proprio umore, inviando messaggi in tal senso ai legislatori. Un’azione di lobbying che, però, non è andata a buon fine.

Resta il fatto che ad essere colpiti dal provvedimento saranno in pratica i miners che utilizzano fonti fossili, mentre quelli che già hanno virato in direzione delle fonti rinnovabili potranno continuare ad operare nella massima tranquillità. Agli altri non restano che due opzioni per proseguire la loro attività: adeguarsi e virare verso un mining sostenibile, oppure trasferirsi in altre parti del Paese, ad esempio nel Texas, dove non sembrano esserci analoghe preoccupazioni di carattere ambientale.

I consumi di energia per il mining stanno realmente esplodendo?

Una seconda questione che andrebbe discussa con attenzione è poi quella relativa agli effettivi consumi collegati al mining di Bitcoin. Per molto tempo è infatti stata privilegiata la tesi che gli stessi fossero eccessivi e tali da mettere in pericolo l’ambiente. Una tesi che però suona abbastanza strumentale, se si considera che ci sono molte altre attività che comportano un impiego di energia dieci volte superiori, a partire da quelli collegati al sistema bancario tradizionale. Nessuno, in questo caso, si spinge però a chiedere di mettere fuori legge queste attività. Ovviamente, verrebbe da aggiungere.

Occorre poi sottolineare come proprio i dati che sono portati a sostegno di queste tesi sono spesso diversi tra di loro. In particolare, i dati rilasciati dal Cambridge Bitcoin Electricity Consumption Index (CBECI) e l’indice di consumo energetico di BTC formulato da digiconomist.net, ovvero le due fonti spesso citate in questo genere di discussione, vedono una differenza quantificabile nell’ordine del 44%. Una vera e propria enormità, tale quindi da sollevare più di un dubbio.

Nella discussione sui dati in questione si è poi abbattuto come il classico sasso nello stagno un recente rapporto del Bitcoin Mining Council, la rete fondata su impulso di Elon Musk nel preciso intento di arrivare ad una attività di estrazione dei blocchi più rispettosa dell’ambiente. Alla stessa hanno aderito molte personalità di rilievo del mondo crypto le quali pensano di poter arrivare ad un onorevole compromesso tra esigenze produttive e tutele per l’ecoambiente.

Secondo l’associazione, infatti, non solo il mining non è inquinante come sostenuto dai suoi detrattori, ma l’energia impiegata per sostenerlo rappresenta appena lo 0,16% dell’energia prodotta complessivamente sul pianeta. Un dato che si eleva allo 0,85% per quanto concerne l’anidride carbonica conseguente ai processi produttivi in questione. Dati che non giustificano, secondo il BMC l’avversione istituzionale ormai evidente nei confronti di questa attività.

Va poi sottolineato che a confortare le tesi del Bitcoin Mining Council ci sarebbero gli ultimi dati, proprio di digiconomist.net, i quali dimostrerebbero in particolare che i consumi collegati al mining di Bitcoin sarebbero in fase di stasi. Anzi, dopo l’halving delle ricompense spettanti ai minatori l’attività dovrebbe ridursi proprio per la minor convenienza delle stesse. Dati che nella concitazione della discussione sembrano spesso essere messi in sottordine.

È reale la possibilità di un passaggio di Bitcoin da PoW a PoS?

Nel corso degli ultimi mesi più di una voce si è levata ad ipotizzare la possibilità di un passaggio di Bitcoin dall’algoritmo di consenso Proof-of-Work a quello Proof-of-Stake. Il motivo è da rintracciare nei vantaggi che il secondo è in grado di offrire in termini di scalabilità e convenienza. In pratica utilizzare il meccanismo PoS permetterebbe di avere non solo transazioni più convenienti, ma anche meno stressanti per l’ambiente.

Da questo punto di vista occorre però anche ricordare una controindicazione in termini di sicurezza, non di poco conto. Proprio il fatto che occorra molto più hash mette in pratica al sicuro la blockchain di Bitcoin da attacchi hacker rivolti a controllare la rete, ovvero i cosiddetti attacchi 51% i quali rappresentano un vero e proprio spauracchio per ogni network. Chi riesce a portarne a termine uno, infatti, è in grado di dare vita ad operazioni come il double spending, ovvero la doppia spesa dello stesso token, tale da delegittimare la blockchain colpita.

Per portare a termine un attacco 51% occorre in pratica riuscire a conseguire la stessa percentuale della quantità di potenza della rete. Se si volessero utilizzare dei dispositivi ASIC come gli Antminer S19 Pro 110 TH/s, ne servirebbero centinaia di migliaia, con una spesa pari a qualche miliardo di dollari. Con tutta evidenza si tratta di cifre destinate a scoraggiare qualsiasi intento in tal senso.

In alternativa si potrebbe pensare all’affitto in cloud della potenza di calcolo necessaria. In questo caso la spesa necessaria sarebbe molto meno rilevante, attestandosi nell’ordine delle centinaia di migliaia di dollari. Anche in questo caso siamo su importi sin troppo significativi per la normale delinquenza informatica. Potrebbe pensarci una istituzione finanziaria, ma un tentativo di questo genere sarebbe destinato ad essere presto di pubblico dominio, screditando chi dovesse intraprenderlo e spingendo alla vendita immediata di tutti i Bitcoin da parte dei possessori, tramutandosi in un bagno finanziario.

Proprio per questo motivo molti ritengono che il Bitcoin non passerà al Proof-of-Stake, a differenza di Ethereum, che si sta avviando verso lo staking. Un processo che si sta rivelando lento e difficoltoso, ma sul quale già si inizia a pensare che potrebbe dare vita ad un sovvertimento dei rapporti di forza attualmente esistenti tra i due dominatori del settore crypto. Ma questa è tutta un’altra storia.

Leggi anche: Proof-of-Stake cos’è e perché sta facendo sempre più proseliti