Anche l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha deciso di partecipare alla discussione in atto a livello globale sulle criptovalute. Lo ha fatto con un documento intitolato “All that glitters is not gold: The high cost of leaving cryptocurrencies unregulated” (Non tutto ciò che riluce è oro: gli elevati costi della mancanza di regole delle criptovalute), pubblicato a cura dell’UNCTAD ( United Nations Conference for Trade And Development), il principale organo sussidiario permanente operante al suo interno sui settori del commercio, sviluppo, finanza, tecnologia, imprenditoria e sviluppo sostenibile.

Il documento in questione non esamina l’innovazione finanziaria dal punto di vista strettamente tecnico, bensì politico. Per fortuna, verrebbe da commentare, in quanto al suo interno emergono delle lacune abbastanza sconcertanti sulle criptovalute, se non veri e propri strafalcioni tali da rischiare infine di invalidare il ragionamento che pure gli estensori si sono sforzati di portare avanti nel tentativo di comprendere le implicazioni di un utilizzo sempre più largo degli asset virtuali, almeno in alcune aree del globo, senza un quadro di regole ben definito.

Tra i punti più interessanti in tal senso occorre sottolineare come l’ONU abbia individuato un vero e proprio nemico contro cui indirizzare i propri furori censori. Si tratta delle pubblicità crypto, del resto oggetto di strali da parte di molti politici, secondo i quali rappresenterebbero uno strumento fuorviante per investitori e consumatori. Furori censori i quali, magari, potrebbero essere riservati anche ad altri asset finanziari non meno pericolosi delle criptovalute, cosa che attualmente non avviene.

Quali sono gli obiettivi del documento ONU

Il documento varato dall’UNCTAD è rivolto in particolare ai Paesi in via di sviluppo, ove le criptovalute sono state da tempo individuate come uno strumento utile per favorire la crescita economica. Basti pensare ai molti Paesi africani che hanno deciso di rivolgersi alla tecnologia blockchain e al denaro virtuale per bypassare ritardi atavici e difficoltà di vario genere, a partire dalla pratica impossibilità per moltissime persone di gestire il proprio patrimonio con strumenti semplici come un conto corrente bancario.

Proprio a questi Paesi sembrano dunque rivolte alcune delle raccomandazioni contenute all’interno del documento. In particolare quelle relative alla necessità di dare vita ad un quadro normativo tale da eliminare alcune delle maggiori problematiche connesse all’utilizzo del denaro virtuale. Proprio in questo ambito, però, è ravvisabile un primo errore abbastanza clamoroso, ovvero quello relativo alla necessità da parte degli exchange di criptovalute operanti in questo ambito di verificare la reale identità degli utenti tramite procedure KYC (Know Your Customer), senza però effettuare la necessaria distinzione tra wallet custodian e non custodian, ovvero tra quelli offerti dai cambiavalori e i privati.

Sempre gli exchange, a loro volta, dovrebbero essere obbligati a registrarsi in appositi registri pubblici, una raccomandazione del resto già rivolta all’interno dell’Unione Europea e, di conseguenza del tutto condivisibile. Mentre lascia qualche perplessità una ulteriore raccomandazione, ovvero quella di aumentare i costi di transazione e scambio sugli exchange crypto, i quali dovrebbero essere decisi in totale autonomia dalle piattaforme in questione.

Non meno discutibile è poi la parte relativa all’emissione di valute virtuali da parte delle banche centrali, in cui si può notare la supposta alternatività delle CBDC (Central Bank Digital Currency) rispetto alle criptovalute. Meno assurda, al contrario, può essere ritenuta la raccomandazione di evitare la pubblicità sulle criptovalute, un tema che, del resto, è già emerso nel mondo occidentale, dando luogo ad un andamento non proprio lineare della discussione.

Il bando alle pubblicità sulle criptovalute

La pubblicità sulle criptovalute è un tema di discussione ormai da anni. Basti pensare in tal senso alla recente decisione di Facebook, tornato indietro su una risoluzione del 2018 a seguito della quale gli annunci in questione erano stati banditi. Una decisione del resto condivisa da Google con l’aggiornamento delle linee guida, a seguito del quale questo genere di pubblicità era diventata praticamente impossibile, come quella su altri servizi finanziari.

Diversa la strada intrapresa da TikTok. Se da un lato la piattaforma cinese aveva vietato a utenti e influencer la creazione di contenuti sul tema, le pubblicità istituzionali avevano invece potuto continuare ad essere mostrate. In questo caso la ratio della decisione era rivolta all’eliminazione di truffe e raggiri, ancora più pericolose in un social frequentato da giovani meno dotati di strumenti in grado di riconoscere tentativi di questo genere.

Il tema è poi tornato d’attualità all’inizio dell’anno, quando l’ASA (Advertising Standards Authority) e la FCA (Financial Conduct Authority), rispettivamente guardiani in tema di pubblicità e servizi finanziari all’interno del Regno Unito, avevano deciso di procedere al bando di 50 società operanti in ambito crypto, considerate responsabili di aver diffuso pubblicità ingannevoli. Senza una rimozione delle stesse entro il 2 maggio il ban sarebbe stato definitivo.

Nel documento redatto dall’ONU, però, sembra che le criptovalute nei Paesi già sviluppati non comportino eccessivi problemi, a differenza di quanto sostenuto per quelli in via di sviluppo. Un punto di vista abbastanza eccentrico, considerato come le problematiche ad esse collegate sono in grado di far danni a qualsiasi latitudine. Tanto da spingere qualcuno a sostenere che il documento sembra quasi voler negare pari opportunità di accesso agli asset virtuali e alle potenzialità ad essi collegate.

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