Il Codice Etico 2022 si appresta a prendere il posto di quello risalente al 2018 nel contrasto alle bufale online. Di cosa si tratta? In pratica è un codice di condotta elaborato dalle principali piattaforme online, dagli attori del settore pubblicitario, dai fact-checker e dalle organizzazioni di ricerca e della società civile teso a risolvere, per quanto possibile, il problema rappresentato dai tentativi di manipolazione dell’informazione. Nel farlo sono stati presi come base gli orientamenti della Commissione espressi nel maggio del 2021.

Si tratta di una questione molto importante, alla luce della furibonda polemica in atto sull’informazione, soprattutto dopo lo scoppio del conflitto tra Russia e Ucraina, in cui la propaganda delle due parti ha colpito massicciamente, rendendo complicato stabilire una base di discussione comune. Basti pensare in tal senso alla vicenda di Lyudmila Denisova, il difensore civico per i diritti umani del Parlamento ucraino, destituita per aver debordato dal suo ruolo, danneggiando la credibilità del governo di Kiev.

Per cercare di combattere le fake news, si sono attivate anche le grandi aziende del web, che fondano le loro fortune sui contenuti e devono di conseguenza cercare di garantirne l’attendibilità. In particolare sono state Meta, Microsoft, Google, Twitter, Twitch e TikTok a scendere in campo, firmando il Codice Etico 2022. Andiamo quindi a vedere di cosa si tratti, per capirne meglio i contorni.

Il nuovo Codice di condotta sulla disinformazione

A motivare il nuovo Codice di condotta sulla disinformazione è il particolare momento storico, il quale vede i tentativi propagandistici russi mixarsi agli attacchi contro la democrazia di carattere più ampio. Ad affermarlo è stata Věra Jourová, vicepresidente della Commissione per i valori e la trasparenza, all’interno di un comunicato stampa diffuso per l’occasione.

Le aziende e le altre entità che lo hanno sottoscritto si sono impegnate a mettere in campo maggiori sforzi al fine di fermare la diffusione di notizie false e propaganda sulle loro piattaforme, avendo cura di condividere dati più dettagliati sul loro lavoro in tal senso con gli Stati membri dell’UE. Secondo la Commissione europea le nuove linee guida sarebbero state ispirate dalle lezioni apprese nel corso della crisi sanitaria conseguente alla diffusione del Covid e delle vicende relative alla guerra tra Russia e Ucraina.

Il codice elaborato per l’occasione si compone di 44 “impegni” specifici per le aziende, tesi in particolare a depotenziare i possibili danni derivanti dalla disinformazione, per quanto possibile. Tra di essi spiccano i seguenti:

  • la creazione di librerie le quali possono essere rintracciate tramite annunci di carattere politico;
  • l’esclusione dalla monetizzazione dei siti di notizie false, rimuovendone le entrate pubblicitarie;
  • l’individuazione e la riduzione del numero di reti bot e account falsi che sono impiegati al fine di diffondere notizie false;
  • la fornitura agli utenti di strumenti tesi a individuare la disinformazione e accedere a “fonti autorevoli”;
  • l’offerta ai ricercatori di un accesso migliore e più ampio ai dati delle piattaforme;
  • la possibilità di lavorare a stretto contatto con fact-checker indipendenti allo scopo di verificare le fonti di informazione.

Se già le aziende tecnologiche statunitensi, in particolare Facebook e Twitter, hanno già adottato iniziative di questo genere, per rispondere alle sollecitazioni di politici e autorità di regolamentazione, l’Unione Europea sostiene dal canto suo che proprio l’adozione del suo nuovo codice di condotta permetterà una maggiore supervisione di queste operazioni, rendendone possibile una conseguente e più larga applicazione dei principi.

Alcune assenze di rilievo

Più dei nomi che hanno aderito al Codice, desta però sensazione l’assenza nell’elenco dei firmatari del codice anti-disinformazione di alcuni pesi massimi del settore. Il primo nome in tal senso è quello di Apple, che pure vanta una notevole attività pubblicitaria e ha più volte messo in rilievo una particolare sensibilità sul tema, tagliando annunci sospettati di veicolare propaganda.

Come spicca del resto la mancanza di Telegram, che è stato negli ultimi mesi un vero e proprio campo di battaglia in cui si sono rifugiati i filo-russi dopo l’esclusione di molti dei loro canali da Facebook. Una assenza la quale sembra rispondere ad esigenze interne, fungendo il social media da vero e proprio polo di attrazione per coloro che sono scontenti per l’attuale situazione dell’informazione online o sono stati sanzionati.

C’è poi un’altra questione da rilevare: se il Codice di condotta sulla disinformazione del 2018  era su base volontaria, in questo caso l’Unione Europea ha deciso di demandare l’applicazione del nuovo al Digital Services Act (DSA). Sarà proprio questo organismo a vigilare sull’applicazione dei principi indicati e a somministrare le sanzioni dissuasive, le quali si preannunciano molto pesanti.  Lo ha ricordato Thierry Breton, commissario europeo per il mercato interno. Per chi viola ripetutamente il codice le sanzioni potranno arrivare sino al 6% del fatturato globale.

La polemica è dietro l’angolo

La proposizione del Codice, però, sembra destinata a provocare non poche polemiche in un contesto informativo sempre più deteriorato. Basta in effetti ricordare quanto accaduto di recente in Italia, dove Open, il fact-checker fondato da Enrico Mentana e scelto da Facebook come partner nella lotta alla disinformazione è stato accusato a sua volta di aver diffuso ben 4 fake news in appena 3 giorni.

Occorre precisare che essere additati da questi organismi come diffusore di false notizie comporta conseguenze di non poco conto. I siti in questione, infatti, possono essere penalizzati o addirittura bloccati. Per capire meglio la questione basta in effetti consultare le informazioni sul fact-checking di Facebook, ove si spiega in modo molto chiaro:

“Rendiamo i contenuti con disinformazione visibili a meno persone: una volta etichettato come Falso, Alterato o Parzialmente falso, questo tipo di contenuti sarà mostrato più in basso nella sezione Notizie, sarà escluso dalla sezione Esplora su Instagram e messo meno in evidenza nel feed e nelle Storie. In questo modo il numero di persone che lo vedono è notevolmente ridotto. Rifiutiamo inoltre le inserzioni con contenuti valutati dai fact-checker.”

Come si può facilmente comprendere, quindi si tratta di un problema molto ampio. Sempre a proposito di Facebook, infatti, occorre ricordare un’altra vicenda la quale ha destato non pochi dubbi, quella relativa alla collaborazione con gruppi come il team Check Your Fact, legato al sito conservatore The Daily Caller. In pratica coloro che dovrebbero verificare l’attendibilità di una notizia sono sempre riconducibili ad una determinata parte politica. Questo non sarebbe di per sé un male, ma può diventarlo se il fact-checker fa prevalere il suo orientamento politico. In definitiva, quindi, la domanda non può che essere la seguente: chi sorveglia il sorvegliante?

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