Come è noto a chi si interessa per un motivo o per l’altro di criptovalute, la maggior parte di esse ha un numero finito di esemplari, terminati i quali cessa il mining, ovvero l’attività di estrazione dei token sulla blockchain. Si tratta di una questione non proprio secondaria, considerato che all’attività in questione sono collegate ricompense le quali, nel caso dei Bitcoin, possono essere in effetti molto elevate.

Proprio per quanto riguarda l’icona concepita da Satoshi Nakamoto, occorre ricordare che il limite il quale comporterà la cessazione del mining è fissato a quota 21 milioni. Attualmente siamo più o meno in corrispondenza del blocco 730.034, toccato il primo giorno di aprile. Se al dato finale mancano “solo” due milioni di BTC, il discorso muta completamente se si prende in considerazione il limite temporale, che nelle previsioni generali dovrebbe essere il 2140.

La discussione sul numero finito di Bitcoin, contrariamente a quanto si potrebbe dedurre guardando ad un anno che è in effetti molto lontano e al quale, purtroppo, non potremo arrivare, è però molto più interessante della pura e semplice curiosità. Andiamo a vedere il perché.

Perché è stato concepito un numero finito

La prima domanda che si pongono in molti, di fronte all’offerta finita di Bitcoin, è proprio relativa ai motivi che hanno spinto Satoshi Nakamoto a non prevedere un’offerta infinita, come quella teoricamente detenuta dagli Stati in ordine alla valuta fiat.

La risposta è da individuare nel fatto che il geniale programmatore di cui nessuno conosce la reale identità, ha voluto imporre un limite matematico in maniera tale da bypassare alcuni limiti del denaro tradizionale, in particolare quelli relativi all’inflazione, tale da ridurne il valore sulla base dell’effettiva disponibilità e del rapporto con il potere di acquisto.

Se da un lato ha voluto impedire che il token risenta della caduta di valore derivante dall’immissione di nuovo denaro sui mercati, dall’altra ha voluto invece ricalcare una caratteristica destinata a sostenere il prezzo dell’oro, ovvero l’essere un bene finito.

Come dovrebbe essere noto, infatti, coi ritmi estrattivi in vigore, il metallo giallo dovrebbe terminare entro una decina d’anni o poco di più. Ciò vuol dire che la sua quotazione è destinata ad essere sostenuta proprio dal progressivo scarseggiare della materia prima, cui concorrono peraltro i tanti impieghi industriali. Proprio per questo l’oro è considerato alla stregua del bene rifugio per eccellenza.

Questa caratteristica, in effetti, si sta rivelando il grimaldello del Bitcoin per l’entrata in pompa magna tra gli asset interessanti per gli investitori istituzionali. Soprattutto in un momento storico come l’attuale, in cui l’inflazione torna a fare paura, avvicinandosi in alcuni Paesi alla doppia cifra, risvegliando un ricordo che sembrava ormai lontano nel tempo. Non a caso BTC è indicato da più parti come oro virtuale.

Le ricompense per i miners

Il dato relativo ai due milioni di token che restano da estrarre è particolarmente importante per una particolare categoria. Stiamo parlando ovviamente dei miners, ovvero coloro che partecipano all’attività di estrazione dei blocchi sulla rete di Bitcoin.

Per farlo occorre spendere cifre molto rilevanti, tese all’acquisizione di macchinari estremamente potenti, in maniera tale da poter anticipare la concorrenza e riscuotere la ricompensa spettante per la potenza di calcolo apportata al sistema.

Si tratta in effetti di ricompense molto rilevanti. Dopo l’ultimo halving (dimezzamento) di quelle spettanti, chi estrae un blocco viene premiato con 6,25 Bitcoin. Considerato come ad oggi la quotazione di BTC si aggiri intorno a 45mila dollari, si può capire abbastanza facilmente la rilevanza della questione e perché se ne parli tanto.

Anche in questo caso occorre sottolineare come sia stato Satoshi Nakamoto a decidere una impostazione di questo genere sulla base di congetture ben precise, esplicitate del resto all’interno del suo celeberrimo White Paper. Proprio ponendo un dimezzamento ogni 210mila blocchi si prevede di favorire un processo di “inflazione sintetica”, dal quale dovrebbe derivarne un rafforzamento della quotazione, facendone un asset di rilievo per tutti quei settori che sono costantemente alla ricerca di beni in grado di resistere agli shock esterni.

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