Che gli indirizzi IPv4 stessero per finire non era certo una novità, ma i dati aggiornati sullo stato dell’adozione di IPv6 fotografano un panorama che, come spesso accade, vede il web già pronto e gli operatori ancora un passo indietro. Nonostante siano passati oltre 17 anni dall’introduzione del nuovo protocollo, oggi in Italia il traffico effettivamente gestito tramite IPv6 si ferma a un modesto 17,7%, valore ben al di sotto della media europea.

Una situazione che, come vedremo, non dipende dagli utenti (che non traggono benefici immediati dal passaggio), bensì proprio da chi avrebbe maggior convenienza nell’implementarlo: i provider.

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IPv4 è agli sgoccioli da anni

Era il 25 novembre 2019 quando RIPE, l’ente che gestisce gli indirizzi IP in Europa, Medio Oriente e parte dell’Asia, dichiarò ufficialmente terminati gli IPv4 disponibili per nuove assegnazioni; da allora si procede solo tramite piccole subnet riciclate, liberate da aziende che cessano l’attività o che non ne hanno più bisogno ma, ovviamente, il bacino non è sufficiente.

Per capire meglio la criticità della situazione è sufficiente un dato, il primo nella lista d’attesa sta aspettando un indirizzo IPv4 da 539 giorni.

Una crisi aggravata anche dalle pessime politiche del passato, negli anni ’90 gli indirizzi venivano assegnati senza tanti controlli, e oggi ARIN (l’equivalente nordamericano di RIPE) continua a trattenere blocchi di indirizzi per aziende ormai chiuse.

IPv6 risolve tutto, eppure non lo usa quasi nessuno

La soluzione esiste, si chiama IPv6 ed è tecnicamente superiore a IPv4 in ogni singolo aspetto: con indirizzi a 128 bit (anziché a 32 bit) il nuovo protocollo può gestire un numero pressoché infinito di nuovi dispositivi, evitando per sempre il rischio di esaurimento.

Ma dopo 17 anni la realtà è molto semplice, IPv6 c’è, ma non si vede. A livello mondiale l’adozione si ferma al 42%, ma in Italia la situazione è decisamente più critica, solo il 17,7% del traffico utilizza IPv6, nonostante tre anni fa fossimo appena al 6,8% e qualche passo avanti sia stato fatto.

Qui entra in gioco il primo paradosso, siccome gli utenti non ne traggono vantaggi immediati, non lo richiedono, mentre gli operatori che avrebbero tutto da guadagnare non lo implementano.

Perché i provider dovrebbero correre verso IPv6?

Alcuni di voi potrebbero aver notato come alcuni operatori, soprattutto quelli più giovani, non riescono a dare un indirizzo IPv4 dedicato a ogni cliente; per sopravvivere ricorrono al NAT (Carrier-Grade NAT), che permette a più utenti di condividere lo stesso indirizzo IP.

Il problema? È una soluzione che costa, e pure parecchio. Secondo RIPE, un ISP che lavora solo in IPv4 spende nell’arco di cinque anni tra i 2,8 milioni e i 4,9 milioni di dollari per mantenere infrastrutture e licenze NAT; con IPv6 il risparmio sarebbe di 1,2-2,1 milioni di dollari, e non è tutto, IPv6 richiede meno energia, la gestione è più semplice e lineare, e l’esperienza degli utenti migliora (soprattutto per gaming, domotica e accesso remoto).

Insomma, IPv6 è più economico, più efficiente e più ecologico, eppure gli operatori principali come TIM, Vodafone, WINDTRE ed Eolo non lo usano ancora su larga scala.

Il web è pronto, i provider no

Qui emerge un dato sorprendente: se guardiamo il traffico totale nel Bel Paese, IPv6 vale solo il 5% del totale, ma osservando l’andamento nelle ore serali, quando gli utenti si spostano sulla fruizione di contenuti multimediali, succede qualcosa di molto interessante.

Lo streaming accende l’IPv6, piattaforme come Amazon Prime Video, Netflix, YouTube e social network sono già pienamente pronte a servire contenuti tramite IPv6 e, quando possibile, lo fanno in maniera trasparente.

Aruba per esempio ha registrato punte del 43% di traffico IPv6 durante le partite di calcio sui Prime Video, la dimostrazione che il web moderno è già ottimizzato per IPv6, ma gli operatori devono compiere l’ultimo passo.

Ovviamente, tanto per cambiare, non mancano anche i problemi lato hardware; a parte marchi virtuosi come Fritz! e ZTE, la maggior parte dei produttori di router non abilita IPv6 di default, anche quando il provider lo fornisce regolarmente.

Solo il 56,7% dei clienti Aruba con router di terze parti utilizza effettivamente IPv6, e alcuni router richiedono configurazioni manuali (perfino l’impostazione di rotte statiche, operazioni che l’utente medio non farà mai). Un semplice aggiornamento software, che abiliti IPv6 automaticamente, basterebbe ad aumentare enormemente l’adozione nel giro di pochi mesi.

IPv6 è inevitabile, ma servirà un’accelerazione

Guardando le stime degli esperti, si punta al 2045 per una piena adozione globale di IPv6, una previsione che alla luce dei dati attuali appare tutto sommato realistica.

Come già detto gli utenti non devono fare nulla, per loro i vantaggi concreti arriveranno solo quando IPv6 diventerà standard e NAT finalmente scomparirà; il vero passo avanti deve arrivare dagli operatori (che hanno tutto l’interesse economico per accelerare), dai produttori di router che devono abilitare IPv6 di default, e dalla Pubblica Amministrazione, oggi ferma a un misero 4% di siti compatibili.

L’infrastruttura globale, piattaforme, CDN, servizi di streaming, è già pronta, mancano solo i provider. Non ci resta che attendere con pazienza che l’intero ecosistema decida finalmente di fare il passo definitivo verso il futuro del web.

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